Beatrice// da dove tutto iniziò

Nell’ultimo secolo, due personaggi sono particolarmente importanti in questa storia: zia Beatrice e mio papà, Baciccia. Lei non viveva in una casa normale, ma in una specie di antro che, attraverso una scala ripidissima, in parte all’esterno, ancora oggi sale dalla piazzetta di Pozzo Garitta. Sempre vestita di nero, viveva in una sorta di eremitaggio cittadino. Era stata sposata con Francesco Schiappapietra, detto Checchin, dirigente dell’Ilsa, una fabbrica di pignatte, ma lui poi aveva lasciato Albisola e lei era rimasta sola, con pochissima voglia di contatti col mondo. O meglio, un contatto lo aveva e avveniva attraverso quelle statuine del presepe che aveva imparato a fare da bambina. Lei come tante. Di pastui, ne faceva moltissimi, praticamente vi lavorava tutto l’anno. Erano sistemati dentro cassette da frutta; in altri contenitori, gli stampi in gesso: le forme erano consumate dal tempo, ma bastavano a dare il primo tocco di vita alla Madonna, a San Giuseppe e al Bambino, all’angelo, al bue e all’asinello e a tutti gli altri personaggi, della tradizione e della fantasia.
Davanti alla finestra dell’abitazione, una soletta. Lì, alla poca luce che filtrava a fatica, dalla materia ancora grezza, dai busti informi appena tolti via dagli stampi, prendevano forma le statuine. Poi bisognava cuocerle. E come le generazioni precedenti si erano rivolte alle fabbriche di pignatte, lei, donna del Novecento, chiedeva ospitalità ai ceramisti, soprattutto a Tortarolo, che aveva la fabbrica giusto sotto casa. Per colorare i manufatti, diventava indispensabile per Beatrice la finestrella su Pozzo Garitta, perché il tocco dei pennelli intinti nei colori mescolati a colla, andasse realmente dove la sua mano voleva. Il rosa del viso, il nero dei capelli, il blu, il rosso, il giallo, il verde degli abiti, spesso arricchiti con ricami; per fare gli occhi venivano usati uno stecco o una forcina intinti nel nero. Negli ultimi anni di vita, quella vicinanza con il gran mondo dell’arte che animava Pozzo Garitta, aveva dato a Beatrice una certa notorietà. Più di un artista aveva salito quelle rampe di scale ed era rimasto affascinato da quella produzione che lei portava avanti, ultima delle figurinaie albisolesi (le altre, che potevano definirsi tali, erano morte a cavallo della Seconda Guerra Mondiale).

Così Beatrice, senza volerlo, e forse senza neppure saperlo, pian piano era diventata un personaggio.

Tullio d’Albisola, ceramista, uomo d’arte e di scrittura, sulla rivista Liguria, nel 1963, a un anno dalla morte di Beatrice, scrive che lei:

“L’ultima figurinaia di Albisola - Faceva pastori che portavano fasci enormi di legna al Bambino Gesù, ceste di pesci, panieri di frutta: doni incredibili! Un suo presepe constava di 25 pezzi: il tutto 5000 lire! Duecento lire al pezzo!Non faceva a tempo a consegnare, tante erano le comande. Lei non ebbe coscienza di rappresentare l’arte popolare ligure, la felicità dei bambini, la fede e la religiosità umile dei liguri, la secolare tradizione del presepe e la fantastica coloristica della nostra Riviera. Certamente non seppe che i suoi presepi entravano in collezioni d’arte, venivano illustrati su riviste e volumi e diventavano regali tra artisti, scrittori e persone di raffinati gusti estetici

Ma c’è di più. Umberto Piombino ha quasi certamente tratto ispirazione da Beatrice nel realizzare il Monumento alla Figurinaia. Guardandola lavorare, aveva deciso di dare lustro a quell’arte povera e dolcissima, e si era dedicato lui stesso alla realizzazione di presepi, rivisitata dalla sua vena di artista. Beatrice fu l’ultima a vivere l’attività di figurinaia in maniera totalizzante. Prima di chiudere gli occhi, donò i suoi stampi a mio padre: un’eredità sui generis e, al tempo stesso, un’investitura, quella di non far morire la tradizione.